E’ passato il testimone

Solo exhibition, curated by Giuseppe Frangi, at Banca di Asti (Milan, Italy) | June – September 2022

C’è un fiore per ogni tempo, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

Gli oggetti guardavano me, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

La storia che non ti ho raccontato, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

Dovunque sei, non sei mai a casa, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

La favola che cambia ogni sera, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

La pianta che mi sopravvive, 2022, acrylic on canvas, 90×70 cm

Passerai come me, 2022, acrylic on canvas, 70×90 cm

La candela è ancora accesa, 2022, acrylic on canvas, 70×90 cm

Ogni ora vola, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

Lo stesso vestito, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

Mi manca chi pensavo di essere, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

Non ti vede nessuno, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

Non è un ritratto, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

Il figlio di qualcun altro, 2022, acrylic on canvas, 50×40 cm

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E’ passato il testimone

Solo exhibition, curated by Giuseppe Frangi, at Banca di Asti (Milan, Italy) | June – September 2022

Convivono una dimensione privata e una pubblica in questo ciclo di lavori che Anna Caruso propone ed espone a pochi passi dal luogo che l’ha ispirata. Il luogo è uno dei più importanti musei milanesi: dal 1881 aperto a tutti, quindi pubblico, ma frutto della passione privata del collezionista che lo ha fatto esistere, Gian Giacomo Poldi Pezzoli. “Casa-museo” è la definizione corretta, che conferma un’identità nella quale coesistono ancor oggi quei due fattori. Nei suoi soggiorni parigini Gian Giacomo era rimasto conquistato dall’innovazione introdotta nella prima metà del XIX secolo da Alexandre Du Sommerard, creatore dell’Hotel de Cluny a Parigi, un museo dove i capolavori vivevano dentro ambienti domestici, accompagnati da arredi e oggetti d’arte applicata. Gian Giacomo aveva applicato quella formula nella sua casa che, secondo la toponomastica di allora, si affacciava su “corsia del Giardino”.

Era un modo di addomesticare il tempo, di renderlo più fluido e più libero dalla logica un po’ dispotica delle griglie storiche. La casa-museo non si costituisce come assemblaggio di eccellenze, ma per amalgama, per una fusione di item, di diversi livello e qualità, in un insieme. Come sappiamo l’apparente casualità che sembrava dettata soprattutto da ragioni di gusto, nascondeva invece un disegno pensato: i le grandi opere, da Bellini al Pollaiolo, documentavano la coerenza della cultura visiva di un paese che stava finalmente costituendosi in unità
nazionale; tutt’attorno, nello spazio delle stanze, veniva messa in scena una celebrazione del saper fare nelle arti decorative, che si fondava sull’assimilazione e sullo studio delle tecniche ereditate dal passato.


È necessario partire da questo sguardo in tralice sulla casa-museo per addentrarsi nel nuovo ciclo realizzato da Anna Caruso. Se leggiamo il titolo scelto per la mostra, “È passato il testimone”, stando all’accezione più immediata e semplice, ci viene naturale immaginare Anna aggirarsi per le sale e incamerare con un colpo d’occhio il mood della collezione. È lei la testimone che si è inoltrata in questi ambienti come ci si addentra in un pulviscolo di memorie, dove tutto si fonde, lasciando affiorare solo dettagli, a volte del tutto imprevisti. Alla tela Caruso chiede di funzionare come una carta assorbente, perché l’istinto a rappresentare non prevalga mai sulla  priorità di assimilare: assimilare quell’insieme di luce, di schegge di storie, di forme sfuggenti, di sogni covati nello spazio delle stanze. “Gli oggetti guardavano me”, è infatti il titolo di una delle opere del ciclo: vi possiamo scorgere il tracciato di una
meridiana esposta alla luce che delicatamente filtra attraverso la geometria ordinata dei riquadri di una finestra. L’artista lascia che sia il contesto a prendere l’iniziativa; così si predispone ad accogliere la casualità di particolari che le si offrono con grazia struggente: c’è sempre una tenerezza degli oggetti in questo loro porgersi al suo sguardo. Il titolo dell’opera attesta proprio quest’esperienza,  rinnovata ogni volta che Anna si è trovata sul luogo. La attesta e insieme la colloca nel tempo, assegnandola ad un passato verosimilmente recente.


Ecco, il tempo: si tratta di una dimensione costitutiva della casa-museo, che dilaga anche nei lavori di Anna Caruso, come se luogo fisico e opere fossero vasi comunicanti. È un tempo lasciato sempre nell’indefinitezza, nella sospensione di un passato che abita il presente, come una nebulosa che si adagia sulle cose e si prende tutta l’aria a disposizione.

È un tempo che non sente l’ansia delle ore che passano come accade agli orologi di cui Gian Giacomo era stato collezionista – anche in questo un pioniere in Italia –  e che oggi sono ancora custoditi ed in gran parte esposti nelle sale della sua casa-museo: l’arrivo della collezione di meridiane donate da Bruno Falck nel 1973, fa del Poldi Pezzoli la più importante raccolta di
misuratori del tempo che ci sia in Italia. Le meridiane sono ovviamente protette dalla luce del sole e quindi il loro gnomone non getta nessuna ombra che indichi l’ora; gli orologi hanno lancette preziose ma ferme, nonostante i meccanismi in tanti casi siano regolati da tecnologie collaudate e all’occorrenza funzionanti.
Del resto la misurazione del tempo non era la loro principale funzione: erano soprattutto un modello dei cieli, dunque proiezioni di una situazione in cui il tempo era privo del suo carattere irrevocabile e definitorio. Oppure grazie alla presenza degli scarabei nelle decorazioni (ripresi da Anna Caruso in tanti lavori), ribadivano l’orizzonte dell’eternità.

Tra gli spazi della casa-museo il tempo invece conserva un aspetto denso e calmo, dove “Ogni ora vola”, come recita il titolo di una delle opere in formato ovale di Caruso, ma pur volando lascia dietro di sé una scia che non si dissolve. L’opera in questione è una ripresa del bellissimo “Pretino” di Ceruti, entrato al Poldi Pezzoli grazie alla donazione di Vincenza e Mario Scaglia nel 2010. Anche l’originale è dipinto su una tela ovale, un formato che è di casa da queste parti, e che Anna Caruso ha giustamente mutuato in modalità quasi seriale. Il perimetro curvo addolcisce le composizioni, diventa quasi un grembo che custodisce, in versione tassidermia, le immagini usurate dal tempo. L’ovale rende impercettibili anche operazioni audaci, come il ribaltamento della celebre “Dama” attribuita
al Pollaiolo, una gemma nella quale possiamo immaginare che Gian Giacomo, rimasto sempre celibe per quanto molto incline alle relazioni femminili, avesse stabilito l’identikit di una irraggiungibile sposa. Caruso ne raddoppia a specchio il profilo e, per ribadire il carattere intangibile di quel magico soggetto, sceglie
come titolo “Non è un ritratto”.

L’immagine è stata sottoposta a una scomposizione piena di preziosismi, dalle capigliature che finiscono con l’intrecciarsi, alle curve del petto e della schiena che si allineano in un parallelismo impossibile. Caruso sa che l’ovale è una soglia che separa il qui da un altrove. Chi vi si affaccia, come anche accade anche a Gian Giacomo in uno degli smalti che fanno parte della sua raccolta di ritratti miniati, si cala dentro una sorta di incantesimo. Con Anna Caruso il fattore soglia implode, l’ovale si richiude su se stesso, come un reliquiario destinato a custodire forme intaccate dal tempo: anche le velature rossastre contribuiscono a creare un effetto ampolla. I titoli delle opere puntualmente rendono
conto di questo processo, assommando negazioni e slittamenti identitari o temporali.

Se gli ovali racchiudono affondi nella memoria, le opere grandi del ciclo invece si annunciano come emersioni di un passato che custodisce la freschezza propria di un presente. I colori, pacati e uniformi, si accendono di luminosità e di trasparenze. Gli ambienti si aprono a vedute su paesaggi desiderati, la natura entra in campo, armonizzandosi con il contesto, a volte addirittura contaminandolo in maniera profonda, al punto che i motivi decorativi sembrano loro stessi slittare verso un’identità vegetale. Per questo nelle opere si percepisce una sensazione di fluidità, che la presenza dei pesci rossi accentua, con le loro macchie di colore incastonate sulla tela, così gioiosamente eccentriche (ci sono davvero i pesci rossi al Poldi Pezzoli: sguazzano nella fontana ai piedi dell’elegante scala che porta al primo piano). Le immagini non si irrigidiscono mai in forme esplicite, ma sembrano sempre in procinto di diluirsi in un flusso visivo, che nel momento stesso dell’apparizione le fa sfuggire sotto i nostri occhi.
È un’osservazione che ci introduce ad uno dei dispositivi chiave della pittura di Anna Caruso, quelle sottili linee bianche che irrompono sulla tela, cancellando la pittura e sovrapponendo una griglia visiva improvvisamente dissonante. Sono tracciate tutte in parallelo; sono affilate e trafiggono la superficie dipinta per fare emergere la nudità e la purezza della tela bianca. Dal punto di vista del linguaggio pittorico
svelano una volontà di sottrarsi alle logiche conservatrici della rappresentazione accendendo un conflitto visivo che agita l’immagine, costringendola appunto a scorrere, a stare sempre in movimento.
È un dispositivo che, in modi nuovi e diversi, ricorda quello messo a volte in atto da artiste come Titina Maselli o Giosetta Fioroni (non a caso tutte donne). Per quanto possa apparire un atto di negazione, in realtà si tratta di un segno privo di ambiguità o di indeterminatezza. È chiaro nel suo significato, così com’è
chiaro e preciso nel suo disporsi sulla tela. Ci parla della transitorietà di ciò che abbiamo davanti agli occhi, a conferma di come al cuore di queste opere ci sia sempre la dimensione del tempo: la pittura di Anna Caruso è nella sua sostanza una riflessione sul tempo, certamente intima e poetica ma non per questo
messa al riparo dalle trafitture della contemporaneità. Quelle affilate linee bianche parlano infatti di un’accelerazione del tempo, che Caruso accoglie, riuscendo comunque ad operare una sintesi capace di armonizzare anche una componente nata per porsi come antagonista.

Ultimo atto del percorso sono le carte radunate in un libro d’artista il cui titolo, “Per sempre un giorno”, immancabilmente, ci riporta al tema del tempo. Anche le carte raccolgono gli esiti delle libere escursioni di Anna Caruso con gli ambienti e il mondo del Poldi Pezzoli. Al centro della sequenza c’è una figura chiave
per le vicende della casa-museo come quella di Rosina Trivulzio, madre del collezionista nella storia della casa-museo. Era stata lei a “plasmare” il gusto del figlio, con una formazione sul campo tra antiquari e amatori parigini: è una situazione che trova un corrispettivo nella biografia di Anna Caruso, il cui padre
collezionava dipinti trovati nei mercatini e che poi appendeva ovunque sui muri di casa. «Li guardavo», racconta l’artista, «e non mi piacevano, ma allo stesso tempo ne ero attratta perché li amava mio padre, perché mi raccontava la loro storia (tante volte inventata), perché narravano una parte di noi come famiglia».


Tornando a Rosina, nel 1828 si era fatta realizzare un busto da Lorenzo Bartolini, lo scultore più in vista sulla scena italiana dopo la morte di Antonio Canova. Qualche anno dopo, sempre allo stesso Bartolini, aveva chiesto un’altra opera per testimoniare il dolore per la perdita del marito, Giuseppe Poldi Pezzoli.
“Fiducia in Dio” è una delle icone della casa-museo, atto di fede, pieno di sentimento, in un tempo che non si esaurisce nel tempo storico. In una delle carte di Anna Caruso Rosina Trivulzio sbuca da dietro una fitta cortina di linee che sembrano stendere un’intercapedine tra noi e lei: il suo sorriso, elegantemente sigillato tra le labbra, trapassa però quella barriera, e ci arriva con tutta la sua segreta poesia. Di “Fiducia in Dio” Caruso ha invece colto il dettaglio più intenso, quello delle mani rilasciate tra le cosce della modella, in un gesto di implorazione. I pesci rossi “nuotano” intorno al suo polso, come a volersi intrecciare per dare
forma ad un bracciale. Un tocco imprevisto di poesia, che stende un velo di dolcezza sull’irreversibilità del tempo.

Giuseppe Frangi